lunedì 19 febbraio 2018

I sognatori.

Il sole tramontava, infuocando le strade, i quadri di mia madre alle pareti e i capelli di Jess. Seduta ai piedi del letto facevo scorrere il carboncino veloce sul foglio. L’aria era soffocante, il caldo della sera pesante e i capelli mi si erano appiccicati al collo. I libri e i fogli ammucchiati sulla scrivania sembravano voler prendere vita e ribellarsi a tutto quel disordine.
Chiusi gli occhi.
Dalla finestra giungeva il rumore del traffico in lontananza, di Babette al piano di sotto che richiamava il proprio gatto e di Luke che annaffiava le rose.
Jess, gli occhi chiusi con le lunghe ciglia quasi a sfioragli gli zigomi, era steso sul pavimento, la camicia leggermente alzata sulla pancia bianchissima, e tra le labbra sottili, una sigaretta spenta.
Aveva le braccia stese lungo i fianchi e la testa leggermente reclinata verso sinistra. Sembrava appena uscito da un quadro di Tadema. Il sole gli illuminava la pelle come porcellana e i morbidi riccioli che gli ricadevano sulla fronte, dandogli un’aria da bambino.
«Getta quella roba e vieni qua.» Come se le labbra di una statua di Canova avessero preso vita, Jess parlò piano, con quella voce bassa che aveva, la sigaretta al lato destro della bocca.
Spinsi da parte l’album e scivolai sul parquet, fino a stendermi vicino a lui. I miei piedi arrivavano poco al di sotto delle sue ginocchia avvolte nei jeans scuri.
Voltò la testa verso di me e aprì gli occhi.
Il mondo si divideva in due: da una parte le persone belle, quelle affascinanti, cariche di mistero, bellezza, particolari insomma, e dall’altra gli invisibili.
Io appartenevo al secondo gruppo e Jess al primo.
Se fossi stata un po’ più simile ad Alec lo avrei baciato, avrei baciato quelle labbra sottili, proprio come aveva fatto lui la sera prima al garage, invece io rimasi lì, ferma, la pelle appiccicosa per il caldo e i capelli sulla guancia destra.
«Credi che quando saremo vecchi il sole ci sembrerà lo stesso?»
La verità era che ogni minuto che passava tutto mi appariva diverso. Avevo diciassette anni e il mondo ai miei piedi, ma lo sentivo scivolare via, come la sabbia tra le dita.
Chiusi gli occhi. «Non ci voglio pensare, Jess.»
Lui sospirò, poi spostò la sua gamba verso la mia e il peso della testa su di un braccio, i suoi riccioli scuri quasi mi solleticavano la guancia.
Non mi piaceva quella situazione. Per niente. Non era giusto nei miei confronti, nei suoi e in quelli di Alec.
Volevo solo dormire e non svegliarmi più.
Jess mi sorrise. In quel momento non feci altro che pensare alla sua tremenda somiglianza con Louis Garrel in The Dreamers.
«Io ti piaccio.»
Sentii che da qualche parte qualcuno urlava, o forse lo immaginai soltanto. «Mmh.» Le tende bianche della finestra si sollevarono alla leggera brezza serale, per un momento mi parve di percepire dell’aria fresca.
«Ti piaccio come i quadri di Van Gogh, come i tulipani rossi, i libri e le poesie francesi.»
Non arrossii.
Mi voltai a guardarlo.
Gli rubai la sigaretta dalle labbra e la misi tra le mie. «Mi piaci di più quando non parli.»
Jess si chinò e mi baciò un angolo della bocca.
Fu un attimo.
Aveva gli occhi in tempesta. Lui amava Alec, proprio come io amavo l’arte, come Babette amava il suo gatto e mia madre le sue tempere.
Un amore che lo consumava.
Eravamo giovani, pieni di vita e volevamo sentire, sentire qualcosa, qualsiasi cosa.
«Cosa farai?»
In un attimo mi passarono davanti agli occhi gli anni trascorsi.
Niente. Non avrei fatto nulla senza lui. «Mi trasferirò in Italia, lavorerò agli Uffizi, mi innamorerò di un italiano, mangerò spaghetti e mi infilerò nel suo letto mentre fuori c’è la primavera.»
Jess rise, i riccioli che gli ricadevano sulla fronte e le orecchie con delicatezza. Inclinò la testa e sorrise arricciando il naso un po’ aquilino. «Andiamo, puoi fare di meglio.»
«Non girare il coltello nella piaga.» Mi fai male, avrei voluto urlare, ma restai in silenzio.
Gettò la testa all’indietro e i capelli corti gli scivolarono via dalla fronte. «Tu sei come i tulipani, Clary. Sei un film muto francese, la pioggia acida di New York, il traffico delle sette del mattino, i quadri di Broome Street, le tempere sulle mani, l’odore di sapone e pulito. Sei tutto questo. E sei bellissima così. »
Non è vero.
Voltai la testa dall’altra parte.
L’immagine di Alec e Jess che bruciava sotto le palpebre. Ingoiai il grumo di bile. Il sole era fuoco dietro la finestra. Avrei tanto voluto bruciare con lui.
«Dovremmo ballare.»
No. 
Jess, la faccia piena di schiaffi e gli occhi sempre pieni di qualcosa, mi guardava come se fossi sul punto di crollare in un pianto disperato, uno strano sorriso sulle labbra.
Avrei voluto strangolarlo.
Mi chiesi cosa avrebbe pensato uno come Michelangelo nel vederlo, forse se ne sarebbe innamorato e avrebbe distrutto il suo David.
Aveva diciassette anni, una famiglia a metà e tanta voglia di vivere. Era un artista, non amava la chimica e odiava i biscotti alla cannella, ma era comunque Jess, il mio migliore ed unico amico.
«Alec ti odia.»
Anche io.
«Ma io ti amo.»
«Zitto.»
Si alzò e lasciò la stanza, ascoltai i suoi passi e poi il giradischi che dava una canzone vecchia quanto il mondo. Jess mi venne a recuperare e io protestai, prima di farmi trascinare in salotto, i piedi scalzi e le tende delle finestre che si gonfiavano al vento che si alzava in strada.
Jess ondeggiava sui piedi, i riccioli sulla fronte e gli occhi semichiusi. Sorrideva.
Come ballerino era uno schifo.
Mi prese le mani e mi avvicinò a lui, sapeva di sapone. Affondai la testa nel suo collo e questa volta non trattenni le emozioni.
Io non sarei mai diventata una scrittrice e non avrei mai imparato a cucinare.

Ma per il momento ballavo, mentre fuori c’era il tramonto e dentro me il diluvio.

Ida Cantone IVZ

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